Sin dall’inizio dello scoppio della pandemia di Covid-19 in Italia, e soprattutto con la ripresa graduale e generalizzata delle attività lavorative iniziata con la cessazione del lockdown, una delle questioni più rilevanti è stata sicuramente quella del rischio di contagio all’interno dei luoghi di lavoro e degli eventuali profili di responsabilità degli imprenditori ad esso connessi (ci si riferisce, in particolare, all’art. 2087 c.c. sulla tutela delle condizioni di lavoro, alla normativa sulla responsabilità degli enti di cui al D. Lgs. 231/2008 ed infine al D. Lgs. 81/2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro).
Ad allarmare il mondo imprenditoriale era stato, inizialmente, l’art. 42 del DL 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”), il quale prevedeva che, nei casi accertati di infezione da coronavirus del dipendente durante lo svolgimento delle proprie attività, l’evento sarebbe stato trattato come infortunio e non come malattia.
Il timore degli imprenditori, in relazione a questa norma ed alla qualificazione giuridica degli eventuali contagi, era costituito dal rischio sistematico di cause legali per violazione delle norme di sicurezza e salute sul lavoro ad ogni nuovo contagio, con tutte le conseguenze del caso quali, ad esempio, molteplici imputazioni per lesioni o omicidio colposo ex art. 589 e 590 c.p., i timori di incorrere nelle violazioni della norma di cui all’art. 2087 c.c., del D. Lgs. 81/2008 ed infine alle sanzioni amministrative previste per gli enti ai sensi del D. Lgs. 231/2001. In relazione a quest’ultima, poi, si sottolineava la difficoltà per i datori di lavoro di andare esenti da responsabilità: in questo caso, è loro onere dimostrare non solo di aver rispettato il modello organizzativo di gestione adottato, ma anche l’efficacia di quest’ultimo. Sul punto si sottolineava infatti l’estrema difficoltà, al momento dello scoppio della pandemia, di dotarsi di strumenti e protocolli idonei ad evitare contagi sul luogo di lavoro (si pensi alla difficoltà di reperire DPI sul mercato, oltre alle incertezze sul da farsi da parte della stessa comunità scientifica).
A dissipare, almeno in parte, questi dubbi, è intervenuto l’art. 29 – bis del DL 23/2020 (c.d. Decreto Liquidità). La norma infatti stabilisce che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonchè mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più’ rappresentative sul piano nazionale”.
La citata norma sembrerebbe quindi porre un limite ai possibili profili di responsabilità del datore di lavoro, che si sostanzia nell’osservanza dei protocolli, delle linee guida e delle istruzioni sia emanate direttamente dal governo, dalla comunità scientifica ed ai protocolli di sicurezza redatti in seguito alla concertazione tra le parti sociali.
E’ infatti innegabile che ad oggi nessuno, ivi incluse le aziende, è dotato degli strumenti e delle conoscenze per poter creare e garantire un ambiente di lavoro a “rischio zero” di contagio. Pertanto, l’introduzione della suddetta norma, unitamente a recenti sentenze della Corte di Cassazione relative al criterio di imputazione dell’art. 2087 c.c. (individuato nella colpa e non in una responsabilità oggettiva) sembrerebbero andare in una direzione precisa e maggiormente garantista per le aziende: l’imprenditore sarà esente da responsabilità ogni qualvolta sia in grado di dimostrare di aver adottato tutte le norme di sicurezza e prevenzione concordate tra le parti sociale e parimenti si sia attenuto alla normativa emergenziale (si pensi, a titolo esemplificativo, all’utilizzo dei DPI, alla presenza in azienda di sanificatori per le mani, al mantenimento del distanziamento sociale all’interno del luogo di lavoro).
Resta naturalmente inteso che, ogni qualvolta avvenga un contagio durante la prestazione di lavoro e l’azienda non sia dotata delle misure di sicurezza adeguate ed indicate dalla ormai assolutamente copiosa normativa emergenziale, ben potranno sussistere dei profili di responsabilità con tutte le conseguenze del caso ma, l’osservazione delle norme di sicurezza oggi vigenti dovrebbe mettere al riparo i datori di lavoro dai rischi, sia in punto di responsabilità che di risarcimenti economici.
In conclusione, anche alla luce della recente c.d. “seconda ondata”, è fondamentale che gli imprenditori osservino scrupolosamente le norme di sicurezza stabilite sia dal legislatore che dalla concertazione delle parti sociali, in modo tale da non correre il rischio di dover rispondere economicamente e/o penalmente di eventuali contagi all’interno della propria azienda, e soprattutto in modo da salvaguardare la salute dei propri dipendenti ed evitare di dover interrompere la propria attività imprenditoriale a causa di possibili focolai sul luogo di lavoro.
Newsletter 10/2020