Oggigiorno l’affanno di apparire sui social network è molto forte: secondo lo Studio Annuale sui Social Network elaborato dalla IAB Italiana, trascorriamo circa 37 ore a settimana connessi a Internet, circa il 22% del nostro tempo libero.
Secondo questo studio, la nostra vita sociale è perlopiù vincolata alle piattaforme dei social. Non sorprende dunque la portata dell’utilizzo che facciamo di questi strumenti, soprattutto utili a lanciare messaggi, di ogni genere, alle persone che, come noi, usufruiscono di questo speciale spazio di condivisione multilaterale.
Siamo, ad oggi, quindi strettamente connessi a Internet e ai social network; essi fanno parte della nostra quotidianità. Così come fanno parte della nostra routine quotidiana concetti come “postare” o “commentare”, lasciandosi, a volte, coinvolgere in discorsi e “virtuali” conversazioni con soggetti potenzialmente irraggiungibili nella vita reale. Spesso, solo per andare incontro al desiderio di approvazione sociale e di apparire sui social network, così come affermato da un studio dell’Università del Messico sulla disabilità sociale. Questa ricerca afferma che più che una distorsione, questa impellenza non è altro che un bisogno di approvazione sociale.
Un tipo di bisogno che a volte, soprattutto negli ultimi anni, degenera tramutandosi in necessità di dare sfogo a sentimenti vili come l’odio, alla base del quale c’è tanta frustrazione, che viene esternata attraverso, appunto, i social. La mancanza di un confronto vis-a-vis, infatti, sembrerebbe avvantaggiare molto questi comportamenti che spesso superando ogni limite, diventano addirittura perseguibili penalmente.
Non essendoci un confronto fisico, anche il timore delle conseguenze di questi comportamenti, sembrerebbe attenuato.
Invece è bene sapere che tipo di conseguenze questi atteggiamenti implichino. Essi integrano un reato proprio catalogato all’interno del nostro sistema penale, quello della diffamazione previsto dall’art. 595 c.p. co 3, il quale punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 Euro chiunque, offenda l’altrui reputazione, comunicando con un mezzo di pubblicità. Il fine che ha animato il legislatore nell’adozione di quest’articolo, è quello di garantire la reputazione dell’individuo, ovvero l’onore, inteso come considerazione che il mondo esterno ha del soggetto in questione.
Serve ricordare che nel concetto di onore sono compresi le capacità morali, intellettuali, fisiche della persona e altre qualità che concorrono a definire il valore che l’individuo ha all’interno del suo ambiente sociale.
Nell’espressione “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” rientra un numero molto ampio di varianti: per la giurisprudenza maggioritaria, anche un messaggio postato a un gruppo limitato di amici ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero vasto e indefinito di persone.
Il compito di definire, come reati, questi commenti è lasciato nelle mani della giurisprudenza, che negli ultimi anni ha avuto modo, purtroppo, di pronunciarsi sempre più frequentemente in merito.
Sopraggiunge, a titolo di esempio, la diffamazione aggravata per chi attraverso un post offenda l’ex compagno/marito/moglie accusandolo/a di non contribuire al mantenimento dei figli, come affermato recentemente dal Tribunale di Torino (T. Torino n. 299/2020).
La medesima condanna va poi comminata anche alla moglie separata che in bacheca Facebook, considerata luogo pubblico (la Corte di Cassazione con sentenza n. 37596 del 2014 ha ritenuto che il messaggio postato su bacheca Facebook, sia potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di utenti che usufruiscono del social) insulti il marito qualificandolo come “un miserabile” bisognoso di cure psichiche (C. d’appello di Cagliari n.257/2020).
Particolare è il caso di un utente che denigrando una professoressa sul piano famigliare, privato e lavorativo è stato condannato quale ricercatore di “giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti”, come si legge nella sentenza del tribunale di Ascoli Piceno (T. Ascoli Piceno n. 90/2020).
Diffamatorio è stato anche considerato il commento che identificava un giornalista quale un “pseudo giornalaio (…) parlato per blaterare” poiché esso è commento atto a offendere e infangare la reputazione, offuscando il “patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico” della persona offesa, così come stabilito dal Tribunale di Campobasso (T. Campobasso n. 43/2020)
Il reato quindi si configurerà ogniqualvolta i messaggi utilizzati (o meglio pubblicati, nel nostro specifico caso) saranno atti a diffamare, disonorare, infamare, macchiare, screditare in modo oggettivo la vita altrui.
L’aggettivo oggettivo non è utilizzato in modo improprio: interessante, infatti, è la sentenza della Corte di Cassazione n 17944/2020 che, al contrario, ha escluso la responsabilità penale per l’utente che, all’interno della piattaforma YouTube augurava ad un dottore, il quale aveva rilasciato un’intervista critica sull’omosessualità, di avere figlie femmine lesbiche, augurandogli al contempo che le medesime sposassero dei gay. I giudici in questo caso hanno oggettivamente preso atto che questo tipo di eventualità nella realtà non rivestirebbe un connotato dispregevole e quindi non avrebbe senso una condanna dell’utente in questo senso. (Corte di Cass. 17944/2020)
La persona diffamata, secondo la più recente sentenza del Tribunale di Vicenza (T. Vicenza n. 1673/2020) può costituirsi parte civile nel processo penale o rivolgersi direttamente al Giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa: per l’offeso, non sarà necessario dimostrare che la paternità del post è del soggetto imputato, se lo stesso non solo lo ha dapprima firmato e diffuso su siti di libero accesso, ma anche ha poi provveduto a cancellarlo dai medesimi, così come specificato dalla Cassazione (Corte di Cass. 17944/20209105/2020).
Negli ultimi anni il ricorso alla giustizia civile per cause di diffamazione, soprattutto a mezzo stampa, è aumentato in misura significativa tanto da aver affiancato, se non in alcuni casi superato, lo strumento della querela e del procedimento in sede penale, all’interno del quale il soggetto offeso avanza un’apposita domanda, in sede di costituzione di parte civile, che consentirà – una volta accertata la responsabilità penale dell’imputato – di ottenere la condanna al risarcimento dei danni conseguenti alla commissione del reato.
Bisogna ammettere, infatti, che nei casi concreti, la gran parte dei procedimenti penali si conclude con decreti di archiviazione, sentenze di assoluzione per mancanza di prove e di condanna a pene pecuniarie. Anche quando si arrivi ad individuare il colpevole e si giunga ad una sentenza definitiva di condanna, esistono poi realmente casi di soggetti che scontano una pena detentiva?
Si tratta dunque di affrontare la questione dell’efficacia del sistema penale, da intendere come la possibilità di prevedere un sistema sanzionatorio maggiormente penetrante.
In realtà, si potrebbe ipotizzare che, al fine di decongestionare il sistema penale, la diffamazione sul web potrebbe essere punita con una sanzione pecuniaria, da graduare a seconda dell’intensità e gravità dell’offesa arrecata: in pratica, si potrebbe prevedere un intervento legislativo volto alla depenalizzazione di talune fattispecie di diffamazione sul web, in favore di condanne pecuniarie più concrete e tangibili per la parte offesa dalla concreta diffamazione.
Dott.ssa Marta Guidetti